Frida, la forza di un’icona

«Ero solita pensare di essere la persona più strana del mondo ma poi ho pensato, ci sono così tante persone del mondo, ci dev’essere qualcuna proprio come me, che si sente bizzarra e difettosa nello stesso modo». È tutta in questa frase tratta dal suo diario, giustamente posta a incipit della retrospettiva aperta alle Scuderie del Quirinale, l’essenza umana se non la valenza artistica di Frida Kahlo. Nata Freida – cambierà il suo nome solo dopo il matrimonio con l’uomo che sarà sua croce e delizia, sposerà due volte e tradirà con innumerevoli amanti, ricambiata: Diego Rivera – nel luglio 1907, la rivoluzione messicana di Pancho Villa e Emiliano Zapata infiamma il Messico e nulla preannuncia per la malaticcia ragazzina di Coyoacan, sobborgo di Città del Messico, una vita troppo diversa da quella delle sue coetanee ebree e di buona famiglia. Il primo punto di svolta arriva un pomeriggio di metà settembre del ’25. Tornando dalla Escuela preparatoria medica in compagnia del suo primo amore, Alejandro Gomez Arias, leader di un gruppo studentesco nazionalsocialista di cui anche Frida è simpatizzante, un incidente la segna per sempre, costringendola a letto per anni e modificando radicalmente la sua visione dell’esistenza. Dalla lunga degenza emerge avvicinandosi a furia di letture al movimento comunista e, soprattutto, all’arte.

E proprio le sue prime incerte prove pittoriche aprono la mostra al Quirinale, che nei titoli mostrano un’attenzione al mondo di quartiere attorno a lei: Paesaggi urbani, Bevine un altro, Ragazza di paese, tutte di quell’anno. Ma già pochi anni dopo, nel ’28, è tutta un’altra Frida quella che pitta Due donne, Herminia e Salvadora, non a caso il primo quadro venduto. Un’opera dove limpido è l’influsso dell’uomo che rappresenta il suo secondo punto di svolta, senza il quale sarebbe stata altro da sé, incontrato quell’anno in casa della fotografa e militante comunista Tina Modotti, con cui ha una relazione. Rivera è un pittore affermato a livello mondiale e fa ben altro che prendere la giovane Frida sotto il suo ombrello protettivo: ne fa la sua amante e la sua sposa, fin dal ’29, facendola entrare nel partito comunista da cui quello stesso anno viene espulso perché troppo vicino alle posizioni di Lev Trockji, di cui è buon amico. È grazie a Rivera, infatti, che l’ex capo dell’Armata rossa, in rotta con Stalin, giunge nel suo esilio messicano. Un raro documentario della fine degli anni Trenta testimonia l’idillio, con Rivera e Frida a passeggio con l’amico fra i cactus nel giardino della casa blu dove vive la coppia. Sarà, quella tra Trockji e la Kahlo, un’altra relazione che porterà, non ultimo, alla rottura delle relazioni di Rivera con l’esiliato russo, alla vigilia del suo assassinio da parte dei circoli stalinisti.

È quello un periodo d’impegno politico e di fama per la Kahlo, sia pure all’ombra dell’ingombrante marito che accompagna in giro per il mondo. Fa conoscere la propria abilità ad André Breton che la iscrive di diritto fra gli interpreti surrealisti più in voga del momento, curando per lei il catalogo della prima personale alla Julien Levy gallery di New York e offrendosi per una mostra parigina che sarà poi organizzata da Marcel Duchamp. Testimone della maturità artistica raggiunta in quegli anni è il magnifico autoritratto in abito nero con canetto, Itzcuintli e io, del ’38. Frida è separata con Rivera dal ’35 – dopo aver scoperto la relazione del marito con la sorella minore – ha già alle spalle diversi aborti ed è sempre più segnata dalla vita ma brilla ormai di luce propria. Anzi, là dove il maestro resta ancorato a una visione muralistica e a tratti naïf che ne costituisce il tratto distintivo e vitalistico, l’allieva viaggia su altre dimensioni, introspettive e oniriche, altre lunghezze. È il caso dello strepitoso Autoritratto con collana di spine e colibrì, del ’40, la cui freschezza evocativa e cromatica restano a dir poco stupefacenti. L’altro Autoritratto come Tehuana (o Diego nei miei pensieri), del ’43 (nella foto), in apertura della mostra ne è una testimonianza emblematica, con Rivera che fissa amorevolmente la sua vecchia-nuova moglie intenta nel dipingersi – i due si sono sposati per la seconda volta alla fine di quell’anno ma non smetteranno per questo di tradirsi e di vivere separatamente – in uno scatto poco distante.

Ma è al piano superiore che la retrospettiva capitolina offre il meglio di sé, con alcune chicche che punteggiano il percorso espositivo. Il corsetto dipinto che Frida è costretta a indossare dai primi anni ’50, per l’aggravarsi delle sue condizioni di salute, con tanto di falce e martello dipinti, luna e stelle e vari simboli magici ed esoterici, ma soprattutto il feto che non riuscirà mai a vedere la luce. Il bisogno del figlio che non riesce ad avere si fa impellente, campeggia in opere che le fruttano premi e ufficialità, come nel Mosé o nucleo solare del ’45, dove schiere d’eroi vegliano sul bimbo che mai avrà, riallacciandosi alla tradizione dei nativi americani che incarna nel volto come nel temperamento (e la piccola tela con elaborata cornice d’argento del Sopravvissuto, del ’38, ne è un esempio). Borgesiani e barocchi i suoi ritratti di quegli anni, evocativa e intimista la sua pittura che assurge a capolavori quali L’amoroso abbraccio dell’universo, la terra, io, Diego e il signor Xolotl (1949), forse il più magrittiano dei suoi dipinti, dove sintetizza a livello superiore, cosmico, l’insanabile contraddizione dell’odio-amore verso il suo uomo, la sua terra, in un abbraccio cosmico che tutto conosce e capisce, e perdona, nell’anno della seconda e definitiva rottura dal marito.

Frida non può vivere con quell’uomo, ma neppure farne a meno. Frida è una contraddizione, un’icona vivente, così inferma ma amante della vita: Viva la vida campeggia sotto uno dei suoi ultimi lavori, omaggiato in tempi recenti dai Coldplay con il loro omonimo cd. E così la ritraggono le foto da marketing di uno dei suoi focosi amanti, Nickolas Muray: eccentrica e variopinta, lo sguardo fisso e a tratti torvo, il sorriso un po’ forzato. Una donna icona di sé e del suo tempo, appunto, uguale e diversa dalla Frida sorridente degli scatti rubati e inediti di Leo Matiz coi quali si conclude la galleria fotografica. Ma Frida è cambiata, e i suoi disegni cosmici ed emozionali la raccontano, schizzi emotivi coi quali tenta di riprendersi dalla personale crisi del ’49, nature morte. Sempre più proiettata nel suo io, in una vitalità che sente venire meno e ben rappresenta nel suo Autoritratto in forma di girasole, del ’54, recuperato da un domestico tra i rifiuti, o nell’altro dello stesso anno con colomba lemniscata a simboleggiare l’infinito che gli sfugge di mano, come la vita. Il suo ultimo: in quell’anno Frida muore, nello stesso luglio che l’ha vista nascere. Di polmonite, si sarebbe detto, dopo una manifestazione contro gli Usa per l’intervento in Guatemala, ma nessuno lo saprà mai veramente. Non ha cinquant’anni, ha molto sofferto e molto vissuto. Solo un anno prima, a letto, ha inaugurato la sua prima personale in Messico. È una donna distrutta nel fisico e nel morale ma ha ancora una forza ieratica, vitale. La forza di un’icona morente, vivente come non mai.

Frida Kahlo, a cura di Helga Prignitz-Poda, dal 20 marzo al 31 agosto, Scuderie del Quirinale, Roma. Info: www.scuderiequirinale.it. Dal 20 settembre aI 15 febbraio 2015 Frida Kahlo e Diego Rivera al Palazzo Ducale di Genova.