La breve carriera di Paolo Scheggi

È accaduto spesso che artisti di primissimo piano – letterati, musicisti, pittori – avessero compiuto tutta la loro opera nei primissimi anni della loro attività creativa, appena giunti a quella maturità indispensabile per far coincidere fantasia e ragionamento. Basti pensare a Mozart, Schubert, Kafka, Boccioni, eccetera che nelle singole arti, da loro così straordinariamente esaltate, hanno potuto esprimere tutta la loro personalità e che, probabilmente, se la loro vita si fosse prolungata non avrebbe portato che decadimento e amarezza per un possibile rallentamento creativo. È pertanto solo un’incauta opinione quella di chi si affanna a sentenziare sulle eventuali mirabili realizzazioni del loro operare se la loro vita si fosse prolungata. Ho sempre pensato che, nel caso di Paolo Scheggi, si dovesse per l’appunto ragionare tenendo conto di quanto ho detto sopra.

Paolo Scheggi, infatti, nei soli tre decenni della sua vita (dal 1940 al 1971) ma in realtà nel brevissimo periodo che va dal ’64 al ’70, sviluppa tutto il ciclo della sua creatività, poi conclusa. Ed è un fatto pure questo dolorosamente insolito con la performance del suo falso funerale cui doveva far seguito, nell’anno successivo a Settignano, purtroppo l’autentica cerimonia della sua sepoltura. Questa decurtazione del tempo a disposizione dell’artista  – di cui era in certo senso consapevole – spiega anche come le tappe del suo operare siano state condensate in pochi momenti molto intensi e quasi perentori.

L’opera, iniziata sotto l’indubbia influenza di Fontana – l’artista che dominò col suo geniale intervento tutto il periodo degli anni ’50-60 – e al tempo stesso, molto vicina a quella degli altri due artisti, pure essi influenzati da Fontana, Castellani e Bonalumi, venne così ad ancorarsi a quel drappello di giovani che ebbi, io stesso, a definire allora “artisti oggettuali”, proprio perché artefici di “quadri-oggetto”, ossia di lavori che non avevano più nulla della pittura a base di impasti cromatici e materici, o di figurazioni più o meno astratte, ma che miravano a realizzare opere essenzialmente geometrizzanti il cui valore di “modulatrici spaziali” fosse sempre preminente e quasi sempre costituisse un fattore di composizione architettonica oltre che cromatica.

Questo atteggiamento che si esprimeva molto efficacemente nelle tele estroflesse di Castellani, in quelle variamente sagomate di Bonalumi, e in parte in alcune di quelle monocrome di Piero Manzoni, nel caso di Scheggi procedeva anche più oltre verso una tridimensionalità più accentuata, attraverso la costruzione di “oggetti” realizzati con la sovrapposizione di due o tre tele, (intersuperfici curve, intercamere plastiche, eccetera) e la presenza nelle stesse di squarci longitudinali o di serie di aperture circolari, molto lontane dai buchi e dai tagli di Fontana perché quasi sempre essenzialmente geometriche, non lasciate al caso o all’azzardo. Ma, mentre nel caso di Castellani e Bonalumi il problema della spazialità di solito si arrestava all’opera singola (salvo nei ben noti “ambienti” di palazzo Trinci o di San Benedetto al Tronto), nel caso di Scheggi si assiste a una decisa “invasione” dello spazio architettonico. Così nel caso dell’Intercamera plastica del Naviglio (1967) nell’ambiente ideato per l’atelier di Germana Marucelli (1968) e nelle sale di palazzo Trinci a Foligno. E permette di constatare, a distanza di quasi quattro decenni, il peso che il quadro-oggetto riveste in un periodo nel quale era appena spenta la fase concretista del Mac e quella dello spazialismo, e dove non era ancora esplosa del tutto l’epoca dell’happening e dell’installazione. Ed è appunto allo happening e all’installazione – trasformate in vere e proprie performance – che Scheggi doveva dedicare l’ultima parte del suo lavoro […].

Scheggi si era evidentemente reso conto dell’eccessiva staticità e dell’eccessivo costruttivismo delle sue tele (ad esempio l’Inter-ena-cubo e gli Spazi recursivi. Non solo, ma i fermenti politici e sociali di quegli anni l’avevano indotto a un coinvolgimento più esteso circa la situazione coeva. Per questo, in alcune di quelle manifestazioni (che oggi potremmo considerare leggermente goliardiche), s’intravede già una diversa maniera di porsi rispetto all’arte visiva e in generale all’attività creativa dell’artista. Credo, come affermavo fin dall’inizio, che non ci si debba porre il quesito di che cosa Scheggi avrebbe potuto realizzare se fosse vissuto più a lungo. Ritengo davvero che il breve percorso del suo operare abbia dato vita a un gruppo di lavori che, sin dai primissimi tentativi, rivelavano un grado eccezionale di maturità come del resto le ultime azioni e le ultime performance stavano a indicare un nuovo cammino che doveva divenire imperante nell’immediato futuro e di cui la sensibilità di Paolo aveva intuito il prossimo manifestarsi.

Estratto da La breve ed intensa stagione di Paolo Scheggi, Galleria d’arte Niccoli, Parma 2002, cortesia dell’autore e dell’editore

Paolo Scheggi, Selected works from european collections, fino all’8 febbraio, Ronchini Gallery (in collaborazione con Galleria d’arte Niccoli), 22 Dering Street, Londra. Info: www.ronchinigallery.com.