Detroit paga i debiti con Van Gogh

Lontani, lontanissimi sono i tempi in cui Diego Rivera pittava sull’ingresso settentrionale del Detroit institute of arts il suo murale dedicato al motore dell’industria automobilistica nordamericana. Altri tempi. Intanto perché l’opera, più che celebrare i fasti di casa e bottega del cuore delle quattro ruote made in Usa intendeva esaltare i suoi lavoratori, immortalava ad affresco gli eroi della catena di montaggio. Quello che, negli stessi anni, Charlot ridicolizzava nel suo Tempi moderni. Ora che quell’industria è diventata preda persino d’un Marchionne e la classe operaia è stata espunta da ogni dove, dalla memoria come dal paradiso, la mirabile opera di Rivera – che, tra gli altri meriti, ebbe quello di rimanere affabulato da un donnino come Frida Kahlo, prossimamente in mostra a Roma – rischia d’essere raschiata via come un qualunque Banksy dal muro, all’Istituto d’arte di Detroit. E non certo per ragioni ideologiche o di mercato, ma per una più modesta faccenda di conti correnti.

Gli è che la città è in bancarotta e l’amministrazione ha pensato bene di trasformare la ricchissima collezione dell’Istituto d’arte di Detroit in solido mancorrente. Così, il commissario straordinario per la bancarotta Kevyn Orr ha dato mandato a Christie’s di censire le ricchezze in sala. Brueghel, Matisse, Picasso, Van Gogh, Rodin: c’è il meglio dei mostri sacri d’ogni tempo nelle belle sale dell’istituto, un patrimonio che la casa d’aste ha valutato poco sotto i mille milioni di dollari. Una bella cifretta per un’amministrazione in profondo rosso che, impossibilitata a pagare le pensioni dei propri dipendenti, potrebbe dare in affitto, o vendere tout court, i 66mila pezzi inventariati. Un’opzione estrema ma non per questo meno concreta, quella che stanno dibattendo negli uffici del commissario, che negli States ha già suscitato un vespaio di polemiche, facendo rivoltare le budella a più d’un critico d’arte.

In effetti, non è che vendersi i gioielli di famiglia sia un’ideona, sia che si parli di dismissioni d’arte come di beni pubblici. Però, pensiamoci su, pure nella patria del belcanto e della memoria labile potrebbe essere una via di scampo. Pensiamo se, invece di Tares e Imu, di balzelli a ogni pié sospinto, ai nostri comuni venisse in mente di copiare Detroit. E chi, tra i nostri centri grandi o piccini non vanta una qualche collezione da sperperare, uno stock di magazzino da mettere in vendita o, alla meglio, dare in affitto? Chi, in questo paese che si avvia allegramente a fornire uno stuolo di camerieri al mondo, non se la sentirebbe di rinunciare a un pezzo di storia patria pur di vedersi garantita la pensione, lo stipendio? A partire dal buon Marino, a cui basterebbe aprire un’oncia dei forzieri romani per allontanare da ogni orizzonte le nubi del commissariamento. Eccola, la prossima mossa della lobby dei banchieri e dei loro fidi scudieri: s’aprano le porte dei musei, si liberino dalle muffite pareti le opere esposte, in nome del libero mercato e del risanamento del debito pubblico. Quanti dobloni possano incassarsi dallo stato è impossibile a dirsi, considerato il po’ po’ di roba che possediamo del patrimonio culturale mondiale, nulla sarebbe impossibile. Potremmo anche tornare a essere quel Belpaese decantato dal made in Italy. Orsù, che s’aspetta a sbaraccare i fregi di Pompei prima che vengano giù da soli? Ecché, Rivera vale più d’una pittura imperiale? Meglio un affresco oggi che affogati dai debiti per tutta la vita. E, dopo di noi, il diluvio.