Dall’Italia a New York

Andrea Sampaolo è un artista italiano che viaggia tra Buenos Aires, Miami e New York. In occasione dell’apertura della sua mostra American again nella Grande Mela racconta se stesso e la sua arte.

Raccontaci il tuo percorso artistico?

«La fascinazione per l’astrattismo italiano e americano degli anni ’70 ha determinato il mio interesse per la liberazione del segno. Un bisogno profondamente radicato dentro di me e che ancora è riflesso nella consequenzialità e nell’ “insubordinazione” emotiva dei mie lavori.  L’impiego e l’applicazione associata a  diversi materiali è un riflesso di questa ricerca illimitata che vuole spezzare tutte quelle catene simboliche in grado di tarttenere il libero corso dell’espressività. Un tentativo che è stato ben sviluppato in alcuni lavori che appartengono ad uno spazio di tempo ben preciso – intorno al 2009 – e che ho chiamato Free Zone. In questa zona liberata hanno trovato collocazione tutta una serie di colori, oggetti, materiali necessari a realizzare un percorso di sintesi. Rinunciando al vincolo del tecnicismo ho preferito affidarmi solo alla passione e all’istinto. Una liberazione che per essere tale ha dovuto per forza di cose superare le inevitabili paure insite in processo di liberazione e vivere l’attrazione per il il mistero come un’opportunità e non un limite. Un confronto a trecentosessanta gradi che con le pulsioni più profonde del proprio essere. Da questo punto di vista l’esplorazione di territorialità geografiche differenti della mia arte va di pari passo con quelle della mia espressività ed è altrettanto significativa. Il viaggio ha permesso di raccogliere luci, sapori, profumi, culture differenti sintetizzate nelle mie opere in una sorta di lingua comune. Come un fotografo ho raccolto delle immagini diverse ma vivine per affinità emotiva in modo da amplificare lo spettro della mia visione, aumentare il campo visivo e i suoi codici. Rispettando in questo l’stinto piuttosto che la progettualità. Le codificazioni dell’astratto più che una fuga vogliono rappresentare un inseguimento, una continua “caccia” al segno, in particolare a quello che non ancora individuato. Una ricerca affascinate materica e cromatica, al tempo stesso».

Quanto vivere a Miami ha influenzato la tua ricerca artistica?

«Il viaggio in America è stato metaforicamente come un viaggio in mare aperto. Con la mia barca ho superato i confini del mediterraneo e ho affrontato la solitudine di quasi tre anni di suggestive peregrinazioni nel bel mezzo all’oceano. In questo modo ho maggiormnente consolidato la consapevolezza e l’appartenenza al mondo dell’arte vivendola senza compromessi ed evitando possibili stati confusionali. Winwood, il quartiere artistico di Miami per eccellenza,  mi ha dato la possibilità di confrontarmi con artisti sudamericani e grazie alla mia galleria Unix gallery (Miami, New York, Londra) ho potuto partecipare ad Art Basel,  Art Miami e  Art Southampton ( quest’ultima vicino a New York). Una partecipazione che mi ha fatto conoscere di persona un mondo di cui da ragazzo leggevo sulle riviste d’arte sognando un giorno di poterne fare parte».

 Il tuo rapporto con gli Usa e con il panorama artistico di questo Paese. Cosa hai imparato in questi anni e quali differenze hai ritrovato con l’Italia?

«Negli Stati Uniti l’artista ricopre una funzione ben precisa e il suo è un ruolo ben identificato. Produce e attorno a questa sua produzione si sviluppa un preciso modello di business. I pro e i contro di questo approccio possono influenzare negativamente l’arte condizionandone l’espressione ma al tempo stesso possono rappresentare per un artista europeo un grossa occasione di crescita e di confronto con un mercato che specie in questo momento non può essere evitato e col quale è necessario fare i conti. Come diceva Andy Wharol provocatoriamente: l’arte è morta perché tutto è stato detto e la riproduzione può finire per serializzare anche le migliori intenzioni».

Quanto delle tue radici culturali italiane ritrovi nella tua arte? E stai pensando ad altre forme espressive o la pittura?

«La mia identità artistica ha radici profondamente radicate in Italia attraverso l’istituo d’arte Silvio D’Amico che ora non c’è più dove professori come Carlo Lorenzetti hanno avuto un ruolo determinante nell’acquisire la consapevolezza necessaria per approfondire le vie del segno e della ripartizione dello spazio, traduzioni di una visione e di una creatività che spingeva verso l’esterno per emergere e che necessitava del giusto canale per trovare espressione. Un’esigenza intima che tutt’ora determina il mio lavoro. Come nel mio nuovo progetto Dreaming Stones – pietre sognanti – dove il marmo viene usato come tela per accogliere il segno pittorico attraverso il dripping delle resine e rappresenta sicuramente un’evoluzione e un espansione del mio territorio di ricerca.

Nel tuo percorso artistico che significato ha questa mostra a New York?

«È un sogno che si realizza. Non a caso amavo gli Irascibili di New York ( ora in mostra a Milano ), un cenacolo artistico che rappresentava le urgenze urbane dello spirito americano degli anni ’70. Il graffio emotivo e sociale di Brooklyn, ad esempio. Un senso dell’arte specifico e ben rappresentato in quegli anni, che oggi forse per un eccesso di codificazione è latinante in termini di espressività pura. La fusione tra desiderio, motivazione e volontà sono alla base della costruzione dei propri obiettivi. Non si deve mai cedere e di conseguenza le motivazioni più intime vanno salvaguardate nonostante il confronto con le energie negative sia inevitabile in un percorso del genere».

Stai già pensando al prossimo traguardo?

«Coerentemente con quanto già detto faccio molta attenzione a concentrarmi e proiettarmi nel presente e comunque sì, ci sto gia pensando: un progetto che riguarda Roma e il suo undergorund ma del quale preferisco tacere seguendo il suggerimento di Wittgenstein. Di tutto ciò di cui non è dato sapere… Colgo l’occasione per ringraziare il mio amico scrittore ed editor Luca Perini  che mi aiuta nel difficile compito di tradurre le mie folli elucubrazioni in concetti più comprensibili. Il tutto nell’accogliente spazio occupato del Nuovo Cinema Palazzo a piazza dei Sanniti sito in San Lorenzo a Roma. Un spazio liberato dalle logiche affaristiche e restituo al quartiere, all’arte e alla cultura».