Arte da serial killer

Roma

Il serial killer è un omicida plurimo, un individuo che compie azioni criminali con regolarità nel tempo e sotto la spinta di una volontà compulsiva e irrefrenabile. La serialità è l’aspetto predominante di questa specie peculiare di omicida, è la caratteristica principale di un’attitudine efferata, controversa e per molti aspetti oscura. In che modo un artista può essere paragonato ad un serial killer? Franko B. e Thomas Qualmann, il primo italiano e considerato uno dei massimi interpreti della body art, l’altro inglese e famoso per la sua visual art, rappresentano un binomio esistenziale oltre che professionale, che vede nell’omicida seriale un concetto riportabile anche nel mestiere dell’arte. La nozione di serialità è dunque la chiave di lettura per poter spiegare un procedimento creativo che si nutre nella sua essenza di una ricerca dedita a sviluppare una matrice estetica frutto di un gesto ripetitivo che non perde specificità grazie alla connotazione personale e psicologica da cui è generato. Hanno sviluppato questo concept nella doppia personale alla galleria Porta Latina, a Roma, dal titolo Serial killer, che riflette la volontà di mettere in comunione lavori trasversalmente opposti ma che favoriscono una visione d’insieme in cui il linguaggio seriale diviene il minimo comun denominatore di un’ossessiva tensione creativa. Abbiamo approfondito con entrambi i protagonisti di questo progetto espositivo le cause e le peculiarità dei loro diversi vocabolari artistici che riecheggiano la natura di una ricerca estetica eterogenea.

Franko come nasce l’idea di associare il concetto di Serial Killer al tuo personale linguaggio visivo?

«L’idea di Serial Killer è nata per sottolineare il concetto di serialità. Non si può sfuggire dal proprio lavoro, il progetto che avevo in mente riguardava la possibilità di proporre una serie di mostre dove poter esporre la stessa immagine creata con l’utilizzo dei medesimi materiali. Nella serialità un’opera non è mai replicata, non è una copia meccanica, in questo modus operandi la ripetizione è generata anche dall’errore e dall’elemento umano che si pone davanti a un’immagine anche attraverso le sue fragilità. Nell’attuale sistema dell’arte le gallerie pretendono sempre la novità, la sorpresa, il pezzo inedito, io ritengo che questa pressione sia la rovina di un artista».

Nelle tue opere la tecnica del ricamo è l’architettura concettuale con cui riesci a costruire un’immagine. Da cosa deriva la scelta di utilizzare ago e filo per realizzare le tue composizioni?

«Nel 2008 un ragazzo che voleva effettuare una collaborazione con me propose l’idea di lavorare sul ricamo, accettai subito di utilizzare questa tecnica perché mi piaceva pensare a un uomo che ricamasse. Associai dall’inizio a questa modalità di creazione una vena poetica che è in prima istanza un linguaggio molto vicino al manufatto artigianale. È stato come avvicinarsi a un mestiere, a una componente casalinga di produzione. Sono convinto che l’arte si esprima attraverso la bellezza, utilizzare un’immagine scioccante è un procedimento anestetico, la bellezza è l’unica via per produrre e divulgare un messaggio. Tanti giovani artisti pensano subito a provocare lo shock nei loro spettatori ma io sono dell’opinione che si possa arrivare a un messaggio solo attraverso la bellezza, un processo che sicuramente ha tempi più lunghi ma che permette di catalizzare realmente l’attenzione della folla. Il bambino accovacciato che ritraggo spesso nelle mie opere è un’immagine derivata da un reportage fotografico dove mi colpì questo piccolo essere nudo abbandonato in una strada del Vietnam, ho pulito quella foto da qualunque agente esterno e ne ho fatto un’icona di bellezza. Questo è il messaggio che voglio promulgare e che credo sia la sintesi per poter parlare della realtà che ci circonda senza però fare della fuorviante propaganda».

Thomas, nei tuoi lavori l’ossessione ripetitiva di codici genera universi immaginifici connotati da un ritmo serrato quasi tormentoso, come si inserisce il tuo lavoro nel progetto Serial Killer?

«Penso che la natura di un titolo affidato a un progetto espositivo non sia un elemento fondamentale, creare un’opera non è un’operazione verbale bensì un processo personale. Io e Franko abbiamo pensato a questa mostra cercando di capire cosa ci accumunasse e il nostro termine di comparazione è la serialità. I miei lavori sono frutto della visualizzazione di codici che ricordo nella mia mente sin da quando avevo sette anni. Disegnare codici vuol dire ricercare il ritmo della natura, rappresentare attraverso simboli geometrici la realtà circostante. A grey square non è altro che la linea del tempo: passato, presente e futuro sono messi in simmetrica correlazione laddove il futuro rappresenta l’interferenza che segna la scansione del tempo».

Fino al 30 novembre, Galleria Porta Latina, via Latina 15/A, Roma; info: www.galleriaportalatina.it

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