I nuovi mecenati / 3

Roma

L’idea stessa che l’Associazione delle fondazioni bancarie italiane e delle Casse di risparmio abbia, tra i suoi organi interni, una commissione dedicata ai Beni e alle attività culturali spiega quanto queste istituzioni private vogliano legittimarsi come motore dell’arte e della cultura. All’occhio più malizioso, poi, potrebbe apparire come la volontà di dotarsi di un ministero “ombra” dei Beni culturali, alter ego di quello dello Stato. E a sentire le critiche che le fondazioni di origine bancaria muovono al Mibac la malizia diventa acutezza. Del resto questi colossi finanziari sono sparsi in tutta Italia, gestiscono con disinvoltura somme ingenti di denaro e hanno un’organizzazione capillare e concreta, consolidata dalla storia e dalla tradizione. Oggi le fondazioni bancarie sono l’unico partner reale dello Stato nella promozione di cultura ma si scontrano con un retaggio borocratico e amministrativo che ne ostacola la progettualità. Ne abbiamo parlato con Marco Cammelli che all’interno dell’Acri è uno dei più esperti in materia. Basta dare un’occhiata alle sue credenziali. Professore ordinario di diritto amministrativo all’università di Bologna fino al 2011, presidente della fondazione Del Monte di Bologna e Ravenna, direttore di Aedon, la rivista online di arti e diritto (edita da Il Mulino), nonché presidente della commissione di cui sopra.

Presidente, c’è chi critica le fondazioni di origine bancaria sostenendo che le loro iniziative culturali siano dotate di poca progettualità.

«Forse prima era così ma oggi la realtà è diversa. Fino al 2005 le fondazioni di origine bancaria hanno vissuto un periodo nel quale le attività erano indifferenziate. Si operava attraverso bandi aperti, in cui si chiedeva alla gente di proporre iniziative e progetti. Chiaramente la progettualità ridotta era comprensibile per due ragioni: innanzitutto perché il modus operandi era rimasto quello delle banche, dalla cui costola sono nate le fondazioni. E poi perché era utile a conoscere questo nuovo campo d’azione. I bandi servivano come le reti larghe servono ai pescatori in un mare che non conoscono. Dal 2005 si è aperta una fase diversa, nella quale ai bandi si sono affiancati progressivamente i progetti propri delle fondazioni, spesso in cooperazione con enti pubblici o privati. Si tratta spesso di progetti anche complessi e significativi. Qualche esempio? La fondazione Del Monte e la Cassa di Risparmio di Bologna con un contributo di 6 milioni di euro hanno individuato, conservato e valorizzato tutti gli archivi pubblici e privati del territorio cittadino, dalla federazione del Pci bolognese al fondo sovversivi della questura di Bologna (la “città degli archivi” verrà presentata ad aprile ufficialmente). Un altro grande risultato di questo impegno è stato quello della fondazione Cariplo relativo alla creazione dei distretti culturali in Lombardia. Oppure, infine, il progetto Funder 35, che coinvolge ben dieci fondazioni, diretto a destinare un milione di euro ogni anno a sostegno delle imprese giovanili, under 35 appunto, che operano nel settore culturale».

Un’altra critica che viene mossa è quella della territorialità. Non trova che le fondazioni possano limitare la loro progettualità culturale se restano così legate alla politica?

«A controprova di ciò sono convinto che nella richiesta di essere troppo rigidi e stringenti si può annidare il rischio dell’eterogenesi dei fini, finendo così nell’unicameralismo. L’apertura alla politica in sé non è sbagliata, anzi necessaria. Le fondazioni nascono da risorse che sono state generate da questi territori, quindi è inevitabile che esista tale legame. Tuttavia sulla difesa della propria terzietà e apertura le fondazioni sono da sempre molto intransigenti. La fondazione deve essere aperta al territorio, ma non del territorio. Non sono soggette agli assessori e ai sindaci e ci sono strumenti per rivendicare questa autonomia. Ad esempio le designazioni secche le abbiamo sostituite con delle terne all’interno delle quali una commissione sceglie le persone più adatte e adeguate. Abbiamo introdotto una discontinuità sia in entrata sia in uscita».

Fugati i dubbi. Ma resta una curiosità. Perché le fondazioni bancarie sono così sensibili agli investimenti culturali, tanto da avere investito solo nel 2011 circa 335 milioni di euro in attività artistiche e culturali?

«In parte per virtù e in parte per necessità. Per quanto concerne la virtù c’è da dire che le fondazioni operano in questo campo con un coinvolgimento più terzo rispetto al gioco degli interessi, quindi possono permettersi di manifestare una sensibilità maggiore per le arti e la cultura Quanto alla necessità bisogna riconoscere che il sistema degli enti pubblici e la politica fanno fatica a consolidare i loro interventi nel mondo della cultura perché la celebre espressione di Tremonti “con la cultura non si mangia”, nasconde una verità assai diffusa: la politica non si sente sufficientemente legittimata ad allocare risorse nella cultura rispetto alle altre emergenze del sociale. Ecco perché c’è questa divisione di compiti, per cui il pubblico tende a lasciare il campo libero alle fondazioni. A fianco a questo riconosco anche che per le fondazioni poter legare il proprio nome a progetti culturali di ampio respiro rappresenta un’occasione di pubblicità e prestigio».

Da un lato, quindi, abbiamo lo Stato che riduce le risorse alla cultura e dall’altro le fondazioni disponibili e generose. Manca qualcosa a livello normativo per rendere più agevole questo vostro intervento?

«Gli strumenti normativi che abbiamo sono scarsi, approssimativi e datati. Nel codice dei beni culturali gli unici punti che fanno da ponte tra il pubblico e il privato sono gli articoli 112 e 115. Ma sono di complessa struttura e applicazione. La situazione è molto complicata su tutta la parte delle gare e della selezione, perché mettiamo sullo stesso piano soggetti molto diversi tra loro. La realtà è che ci sono molti livelli sovrapposti nella sfera pubblica: dai comuni, alle regioni, fino ai ministeri. Noi avremmo bisogno di uno statuto delle relazioni che permetta di avere garanzie reciproche, conoscere il terreno su cui ci si muove, capire quanti soggetti pubblici esistono».

Trova che la sfera pubblica sia “gelosa” del patrimonio culturale?

«Sì ma sempre meno. In questi tempi di crisi questa tendenza si sta molto attenuando, evidentemente. Il pubblico ha ancora, soprattutto nei suoi uomini, una formazione sostanzialmente di esclusività e monopolio, sulla base però di un’idea sbagliata e di esigenze giuste. L’idea sbagliata è che solo il pubblico si può occupare di interessi generali. Questo assunto di base stava alle fondamenta dello stato ottocentesco, oggi non è più attuale. A fronte di ciò ci sono, però, delle esigenze giuste: ad esempio alcune posizioni di apertura a un privato con poco discernimento e poca attenzione rischiano di generare gravi problemi e pessimi risultati. Aprire al privato deve essere un punto di arrivo e non di partenza. L’amministrazione oggi su questo non è attrezzata e si rischia di antologizzare il patrimonio culturale. I privati che operano nella società sono tanti e diversi tra loro. Ci sono, oltre alle fondazioni, anche le imprese, le associazioni, le onlus, tutti soggetti che si stanno ritagliando spazi sempre maggiori nella vita sociale. Ma siamo preparati in Italia a instaurare un valido confronto tra tutte queste realtà? Per farlo servono regole fisse che delimitino le sfere di competenza e i margini di collaborazione. Purtroppo oggi il pubblico non è credibile».

Per tirare le somme le cito tre spunti: l’uscita recente del libro Kulturinfarkt, che ha fatto scalpore per la sua proposta di azzerare gran parte dei fondi alla cultura; l’appello di Settis, Sgarbi, Daverio e altri, che, in risposta al libro, invitano lo Stato a destinare più fondi alla cultura; e poi la Fondazione Cassa di Risparmio di Torino con la bellissima collezione artistica che ha creato autonomamente. Secondo lei dove va ricercato il futuro della cultura?

«Suggerisco due metodi: il primo è quello di consentire ai privati di muoversi con uno sguardo alla domanda. Non sarebbe lungimirante vincolare la domanda all’esistenza di un finanziatore. Noi, con Funder 35, finanziando le imprese per irrobustirle abbiamo operato in virtù di questo obiettivo. Il secondo consiste in una rivisitazione delle funzioni del pubblico. Lo stato potrebbe tornare a rivestire il ruolo indispensabile che ha se solo si organizzasse traendo spunto dal paese reale e non dal paese che non esiste più. Questa operazione di restyling potrebbe partire dalla riforma del Mibac. Non sono favorevole agli azzeramenti ma sono contrario anche allo spreco delle risorse e mantenere un ministero con tale struttura significa proprio buttarle alle ortiche».

 

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