Foto tra rifiuti e degrado

Dal15 marzo è possibile visitare, nello spazio Nea di Napoli, il risultato degli scatti di Aniello Barone, dal titolo Paesaggio. La mostra è curata da Pasquale Lettieri e allestita da Tonino Di Ronza. Tra i più stimati fotografi italiani, Aniello Barone ha sviluppato negli anni una personale visione su territori marginali, realtà immerse in un problematico degrado al centro da sempre di progetti di riqualificazione urbana e territoriale. Fanno parte di questa ricerca fotografica anche i mostruosi cumuli di immondizia che hanno trasformato, negli ultimi decenni, il paesaggio dell’hinterland napoletano e casertano e che adesso sono il filo conduttore della mostra stessa.

Aniello Barone nasce a Napoli nel 1965. Laureato in sociologia con una tesi sul degrado ambientale ed esperto di criminologia, da diversi anni si interessa della relazione uomo-ambiente, accostandosi a queste tematiche tramite la fotografia.? Nel 1994 intraprende una ricerca fotografica sulla realtà urbana e suburbana nelle aree metropolitane, ponendo particolare attenzione alle subculture. Con Paesaggio, terzo appuntamento del progetto espositivo ed editoriale Pelle & pellicola, il fotografo partenopeo, svela nei contrasti tra il bianco e il nero e nelle sfumature di grigio dei suoi lavori e nella scelta del soggetto il suo intimo bisogno di confrontarsi con una realtà complessa, documentandola e allo stesso modo contemplandola emotivamente.

Barone può essere considerato tra gli eredi di una grande tradizione di reporter, che hanno raccontato Napoli e il Sud oltre lo stereotipo. È un sostenitore della necessità della ricerca sociale, fondamento culturale della creatività, da unire a un percorso di profonda riscoperta del linguaggio fotografico. L’arte di raccontare per immagini deve, infatti, pagare sempre l’onere di un doppio registro, che comporta ora primato della forma, ora primato del contenuto, in una escursione perenne tra teoria e prassi, tra linguistica generale del mezzo e concreta manifestazione fenomenica, costringendo sia a una contemplazione estetica, sia a una interpretazione filologica. Il fotografo, che è sempre al limite di una composta spregiudicatezza, parla di rigore, di scelta, che caratterizzano il suo gioco di paesaggio fatto di natura/non-natura, d’impossibili scene metropolitane, di astrazioni e figurazioni date dalle misure della distanza.

L’artista sposta l’asse della visione fotografica sempre più verso una connotazione inquietante, facendo recitare al suo paesaggio e agli inconsapevoli protagonisti umani (compresi gli spettatori), una parte febbrile: proprio quando sembra non succedere niente e tutto è sospeso in una dimensione spaziale e temporale fissa, ecco che il non accadere diventa il suo esatto contrario. Avviene così che questa idea sociale della visibilità, in cui il fotografo si gioca il tutto per tutto, diventi un affascinante contenitore di cose del caso, di robe vecchie, sottratte alla morte o alla discarica e messi in un nuovo circolo arterioso, dando una indicazione di civiltà, sulla durata e sull’ordine delle cose, che non è neutralità nei confronti degli accadimenti, ma una presa di posizione dell’arte sull’espressione e sulla comunicazione, sull’individualità e sulla speranza, facendo della disperazione l’extrema ratio, una leva, per far nascere un’idea, per generare un progetto.

fino al 10 aprile, Nea, via Costantinopoli 53, Napoli; info: www.spazionea.it