Roma siamo noi. Oltre la crisi

Difficile vivere a Roma per chi è nato tra i laghi, i fiumi e i fumi della Bassa Padana. Difficile resistere al fascino dei suoi portici, e al lezzo dei suoi lestofanti. Alle affabulazioni di una città canaglia che sa sorprenderti coi suoi scorci di umanità dolente, coi suoi afflati di poesia immortale. Troppo difficile, per chi viene da città di mattoni e cemento, per chi ha la razionalità di vivere con un piede in Europa, capire fino in fondo questa metropoli a mollo fino al collo in Africa. Che non si stupisce di nulla, perché tutto ha visto e subìto, visto che, per dirla come certi, quando altrove c’erano solo foreste e capanne di fango, da queste parti già si era usi a terme e festini gay. Bestemmie e bellezza, splendori e miserie, questo il destino della città dei papi che, nomen omen, Romano Benini – Brescia, 4 luglio 1965, giurista e autore, tra l’altro, del format Rai Okkupati – da gran lombardo fustigatore dei scostumi di una città che pure ama e dove vive, anzi proprio per questo, indaga in un libro (Capitale senza capitale, Donzelli, 197 pagine, 18 euro) scritto a quattro mani con Paolo De Nardis, ordinario di sociologia alla Sapienza.

Da bresciano, a Roma il tuo disagio è forte ma dalle pagine trapela anche un amore altrettanto robusto per questa città. Alla fine, chi vince? «Chi nasce e cresce nell’Italia del Nord a Roma ha il cuore spezzato. Non è un caso che molti lombardi, da Arnaldo da Brescia a Borromini fino a Caravaggio, hanno avuto vicende di vero e proprio amore ed odio per una città che si ama, ma che non si capisce e non si può a volte capire. I romani sono un popolo che ha una pazienza e una tolleranza ai limiti dell’autolesionismo e che a volte sconfina con una indifferenza che ferisce, perché davanti a tanta bellezza non si può rimanere indifferenti. Quello che più mi infastidisce però è la politica romana, un teatrino dominato da amicizie e relazioni clientelari che serve per gestire le relazioni tra i poteri consolidati, ma che impedisce qualsiasi cambiamento. In tanti anni non ho mai visto le persone giuste al posto giusto e decisioni prese in ragione del merito e dei curricula. Questo però succede ovunque: credo che a Milano oggi non sia diverso. Non mi rassegno, dobbiamo continuare ad indignarci, anche se lo dobbiamo fare forse per i nostri figli incolpevoli ed i nostri nonni meritevoli più che per gli italiani e i romani di oggi».

In Capitale senza capitale affronti esplicitamente il tema della decadenza di Roma come metafora del declino d’Italia. Non solo degrado, quindi. «Quello che vive Roma è declino e non crisi: si ha crisi quando c’è un problema, ma subentra il declino quando non si reagisce al problema. L’Italia e Roma sono immobili da decenni davanti ai problemi, dal lavoro alla cultura. Nessuna azione, nessuna reazione. Il degrado è solo una conseguenza esteriore del declino, che si evidenzia quando non essendo capaci di produrre qualità ed opportunità si sfrutta il territorio, si usano le rendite, come quelle della bellezza ereditata, per alimentare quantità, come le quantità turistiche. L’incuria è figlia di un utilizzo del territorio usa e getta che a sua volta è conseguenza del declino, la risposta sbagliata di chi è incapace di progettare».

Per riattivare questo circuito virtuoso proponi ricette concrete. Quali? «Essere consapevoli dello stato di cose, cogliere gli aspetti del declino, capire che la cultura dello sfruttamento del territorio non crea opportunità, liberare la città dall’immobilismo sociale, non dare le chiavi del potere agli storici detentori di quelle rendite di posizione (dal turismo alla finanza) che da anni non sono in grado di creare opportunità per i romani e gli italiani, recuperare il senso di responsabilità, cambiare i politici inadeguati ed incompetenti, che a Roma vengono nutriti da una politica che si preoccupa di fare sintesi tra poteri forti ma logori e non di dare opportunità nuove ai cittadini che se lo meritano. Alla base di questa auspicata palingenesi va posta una azione di rinnovamento che non può non essere culturale: vorrei un italiano un pò meno cortigiano dei poteri parassitari ed un pò più libero artigiano, come ho scritto nel libro Italia cortigiana. Per essere liberi artigiani del terzo millennio dobbiamo essere competenti, studiare, imparare, girare il mondo, darci da fare e non dipendere dalla disponibilità altrui.  Serve un nuovo umanesimo».

Etica e tecnica, in altre parole correttezza e capacità, sono viste come antidoti al declino, da cui si uscirebbe con un nuovo umanesimo. Diamo qualche elemento di questa tua filosofia economica. «Ritengo che lo sviluppo abbia sempre coinciso con sistemi in grado di sostenere e promuovere il saper fare delle persone, premiando l’impegno, ma nel contesto del rispetto delle regole e del bene comune. Un mercato che funziona sulle regole del merito e del diritto. Questo in Italia è stato fatto, basti pensare al Rinascimento: siamo stati noi a organizzare i sistemi delle comunità operose con al centro le competenze, le tecniche, la nostra maestria artigiana che spesso diventava arte. Per tanti motivi questa dimensione, che all’estero è diventata nazionale, basti pensare alla Germania, da noi è rimasta soprattutto locale e cambia molto da area ad area. A Roma questo modello meritocratico basato sulla promozione dell’autonomia individuale è oggi ai minimi storici ed anche nel resto del paese non siamo messi bene. Regolare sul bene comune la libertà dell’agire economico, dare prospettiva sociale alle capacità è oggi l’antidoto umanista per evitare da un lato i costi di un sistema cortigiano e parassitario basato sulle clientele, che infastidisce metà degli italiani e mantiene l’altra metà, e dall’altro per evitare la confusa risposta anarcoide e sterile , in cui mi sembra rischiano di ricadere oggi quegli italiani che non godono di protezioni e rendite, più o meno appunto la metà.  Insomma, torniamo a credere nella cultura del lavoro e nella responsabilità sociale di chi lo promuove».

Per il mercato del nuovo millennio chiedi soluzioni condivise. Ma oggi, come cinquecento anni fa, il “particulare” sembra vincente, di condiviso c’è solo il furto con minore o maggiore destrezza. Chi dovrebbe farsi portatore di questo nuovo umanesimo? Vedi all’orizzonte qualcosa, qualcuno? «Lo sviluppo dell’Impero romano lo si deve alla liberazione degli schiavi, alla voglia di fare e all’emancipazione di quei liberti che divennero mercanti e artigiani. il Rinascimento arriva come conseguenza della liberazione dalla condizione servile di milioni di contadini e dalla promozione del commercio e delle arti. Un possibile nuovo sviluppo arriva solo se gli outsider di oggi, precari, partite iva e tanti altri, riescono a liberarsi dalla loro condizione neoservile e a condizionare le scelte della politica e del sindacato. Siamo ancora molto lontani da questo. Quello che vedo non mi convince, per niente».

Oggi la parola cultura è tagliata a metà, come un salame: Nicola Zingaretti ne ha fatto il suo cavallo di battaglia per la presidenza alla regione Lazio, vincendo, altri ricordando il tremontiano “con la cultura non si mangia” ne negano ogni valenza reale. Cosa può fare davvero il comparto della cultura per la ripresa economica in una città e in un paese come il nostro? E può esistere vera cultura e identità storica basata su un’economia dell’effimero, priva dei fondamentali? «In Capitale senza capitale tratto molto approfonditamente l’aspetto del turismo e dei beni culturali. Roma da questo punto di vista offre i peggiori esempi. A Roma si è fatto e si fa proprio il contrario di quello che si dovrebbe fare. Il rapporto tra flusso turistico e valorizzazione dei beni culturali è possibile solo se il paradigma è quello della qualità. Questo non avviene affatto. Nelle maggiori città d’arte italiane, da Roma a Venezia predomina una gestione dei flussi turistici governata dall’usa e getta. La durata media di permanenza di un turista a Roma è poco più di due giorni. Per questo motivo in questi anni a un aumento della presenza dei turisti del 20 per cento corrisponde una diminuizione dei posti di lavoro nel turismo e nei beni culturali. La conseguenza è che a Roma il 95 per cento dei turisti visita solo i primi 4 musei e gli altri 80 siti museali e archeologici sono visitati dal restante cinque per cento e quindi sono destinati a chiudere. Potremmo fare altri esempi: a Venezia molti negozi non vendono e valorizzano i vetri di Murano, ma falsi prodotti in Cina. E a Murano rischia di chiudere una grande tradizione millenaria. A cosa servono i sindaci se non tutelano le competenze e l’economia locale? Possiamo fare esempi sconvolgenti di un paese che dovrebbe essere commissariato dall’Unesco, visto come non si riesca a valorizzare i beni culturali. In questo libro parliamo di come il degrado romano sia derivante da una città devastata dall’usa e getta, in tutte le sue forme e la più evidente riguarda proprio i ben culturali. La responsabilità sono ovunque, a partire dalle soprintendenze. Pensiamo al fatto che la soprintendenza di Roma ha avuto il coraggio di approvare un progetto di cementificazione di via Giulia, fortunatamente per ora bloccato dai cittadini inferociti. Se fossi il sindaco di Roma per prima cosa azzererei gli incarichi di tutti coloro che hanno responsabilità nella gestione del patrimonio culturale ed artistico. Via tutti».

Infine, Cito da pagina 180: “Proprio nella Roma eterna si consuma oggi il furto della nostra promessa di eternità. La Roma di oggi ci toglie il sogno della Roma del passato”. Io chiuderei qui. Insomma, com’è questa Roma, oggi? Nel passato per molti il sogno si colorava dei colori dell’incubo: fanno il deserto e lo chiamano pace, diceva Tacito a proposito della lex romana. Citazioni a parte, Roma ha sempre avuto un aspetto multipolare, è sempre vissuta di grandi paradossi, miserie e splendori. «Roma è una città esemplare, l’eredità della civiltà romana ed il ruolo del cattolicesimo sono al tempo stesso centrali nella identità italiana ed espressione di Roma. Parlare di Roma significa parlare di noi. Oggi i problemi di Roma sono esemplari davvero dei problemi del paese e per la prima volta da tempo Roma torna ad essere nel bene o nel male molto identificativa di un paese che è assolutamente romanizzato. D’altra parte tutti i tentativi, pensiamo alla vicenda della Lega Nord, di fare politiche antiromane sono giustamente falliti. Roma siamo noi. Roma è una città estrema, con una vicenda storica estrema, una città che è stata tra le più ricche e tra le più povere d’Europa e che ora vive un declino esemplare di quello che accade al resto d’Italia. Non è una nobile decadenza, ma un declino un pò volgare ed è il caso di fare una cosa che i romani fanno un pò fatica a fare: mettere il dito nella piaga. Questo è l’intento di Capitale senza capitale e credo di esserci riuscito».

Gli autori presentano il saggio alla sede Cna di Roma, via Guglielmo Massaia 31, il 21 marzo alle 17.30. Con Lorenzo Tagliavanti, Claudio Di Berardino e Andrea Catarci. Coordina Gianluca Peciola, portavoce dell’associazione Roma futura.