Storia di sassi e di Biennali

È effettivamente un piccolo-grande saggio quello della collana Bompiani con cui Vittorio Sgarbi si toglie qualche sassetto rimasto nelle scarpe, a distanza di un anno dalla Biennale più chiacchierata e anomala da molto tempo in qua. Forse da sempre. Tesi del libricino, come di quella kermesse, è: tutta l’arte è (può essere) contemporanea e non ha bisogno di specialisti per essere capita. Tesi tanto apodittica quanto bisognosa di precisazioni per essere compresa al di là d’ogni strumentalizzazione e banalizzazione. Vediamo i punti salienti dell’ultima versione dello Sgarbi pensiero riguardo alla contemporaneità creativa in L’arte è contemporanea (sottotitolo: l’arte di vedere l’arte, 127 pagine, 12 euro).

L’arte contemporanea, anzitutto – ma sarebbe forse meglio dire moderna – nasce con l’irruzione dell’irrazionale, vale a dire dell’emozione, come sostitutivo della bellezza nella storia. Bellezza che è intrinseca in un’opera, come in una persona, dunque non ha bisogno di specialisti per essere capita (semmai di scrittori, pare suggerire il critico ferrarese), e via il primo sasso. Basta con le Biennali che nascondono la vera arte, ovvero ne mostrano una incapace di farsi percepire dal pubblico (dei non specialisti) come arte, «essendo indistinguibile dalla realtà più fortuita e corriva». Come le Vacanze intelligenti di Sordi raccontano la percezione popolare di quell’arte, il Down di De Dominicis, criticato da Montale, rappresenta l’opera chiave del grottesco nel contemporaneo, al pari delle trovate attuali di Cattelan. L’indice di una mentalità (ital)idiota.

Tutta l’arte è contemporanea in una duplice maniera, cioè accanto alla continuità di ciò che esiste c’è quella di ciò che resta. Il “fascista” Mantegna col “comunista” Caravaggio al pari dei nostri coevi, nella caducità delle umane cose (bellissima la citazione dantesca del Cacciaguida). E nel passaggio dei secoli è sempre il primo decennio (ventennio?) a essere il più fertile, quanto meno a dare la stura a quel che sarà. Il nostro, tempo di distruzione più che di creazione, è stato annunciato dalla caduta delle Twin tower, summa opera d’arte al tempo della visione simbolica. Immedesimazione tra arte e vita che è il portato della contemporaneità fondata da Van Gogh che dipingeva non quello che si vedeva ma quello che non si doveva vedere.

In questo sistema dove l’opera d’arte è cieca – perché non guarda e non vuole essere guardata da qualcuno in particolare, un committente come nel passato – l’artista senza mercato e mercante è morto, visto che non può venir meno all’imperativo della pubblicazione, ergo della visibilità-notorietà, pena la nullità. È in questa cecità dell’opera, come nella sua relazione tra valore estetico e di mercato, la cifra del contemporaneo rispetto all’antico. Ciò produce una «mafia del mercato difficile da debellare»: se non sei del giro non esisti, e se non esisti non sei del giro. Questo ha portato a un progressivo distacco tra produzione e destinatari, fino a un isolamento completo e a una totale irrilevanza con estetiche e sentire comune.

Di qui la controffensiva sgarbiana partita con la Biennale del 2011, basata non sullo sguardo del singolo curatore ma su 300 sguardi di testimoni del nostro tempo: personaggi della cultura, a diverso titolo, per stabilire, in contrapposizione al mercato e alla moda (o alla moda del mercato) cosa vede chi pensa, stabilire che «l’arte non è cosa nostra». Essa, cioè, deve stare nel mondo, sulle pareti di case vive e non nelle asfittiche sale di musei d’arte contemporanea simili a infermerie. Così, negando ogni “patente di contemporaneità” agli «anemici pseudo competenti degli addetti ai lavori», la sua Biennale diffusa è stata anche la più democratica di sempre. E via il secondo sasso.

Il terzo, talmente grosso da essere un macigno, seppure in via di sgretolamento dai tagli prodotti dalla crisi, è collegato al precedente e consiste nell’evitare di fare l’elemosina ai ricchi, cioè a non sovvenzionare mostre e artisti contemporanei famosi in strutture pubbliche. Meglio sarebbe, in questi casi, rivolgersi a una fondazione per la gestione, demandando alle deficitarie amministrazioni pubbliche la manutenzione ordinaria. Non a caso i casi del Madre e del Riso sono portati dal critico come esempi d’improvvido mecenatismo alle tendenze e ai gusti del mercato scollegati dal contesto locale e privi d’interesse per la maggior parte della cittadinanza. Viventi per viventi – afferma Sgarbi – meglio sarebbe per lo stato assistere artisti di valore ma privi di mercato, invisibili appunto, che stranoti artisti dal mercato milionario e spesso drogato.

Via smotteggiando, agli estremi dell’arte contemporanea, cioè autentica e inautentica, applicata e implicata, si collocano il madrileno Antonio Lopez Garzìa e Maurizio Cattelan. Fedele alle sue origini il primo coltiva il paradosso dell’autenticità che gran parte dell’arte contemporanea pare respingere, raggiungendo una dimensione universale pur essendo assai poco cosmopolita, l’altro rappresenta in un guazzabuglio di spot pubblicitari che pretendono solo far parlare di sé, da emulo delle avanguardie, un amarcord personale e autopromozionale a cui manca qualsiasi emozione, privo di necessità e verità (altri due termini pericolosi, quanto mai sovversivi e perciò cassati dal registro linguistico contemporaneo).

A questo punto, rovesciando la dialettica, a dispetto dei tanti artisti “convenzionali” amati dal nostro (con tanto di lista, dal citato Garzìa a Vangi, al pittoscultore Vitali) non si può non accorgersi che l’arte contemporanea sono i video, il design, la moda, soprattutto. Il contemporaneo si ciba di cinema – e qui il paragone con l’immagine filmica che racconta, meglio dell’immaginazione letteraria, il Novecento cogliendone lo spirito del tempo – di spot televisivi e comunicazione pubblicitaria. L’ultima avanguardia, prima dello schianto che ha reificato la frase hegeliana (fatta propria da Argan) della morte dell’arte, è nell’avanguardia della pop art warholiana. Ma le avanguardie che reiterano sé stesse per venti o trent’anni non sono più tali, anche se celebrate come tali, come la transavanguardia o l’arte povera, o gli ultimi resistenti Fontana e Burri. Così, l’artista che rifiuta l’hi-tech contemporaneo è un bohémien destinato all’oblìo. Ma proprio per questo l’arte contemporanea è vecchia, tutto è già visto, e i neoavanguardisti proclamatisi tali solo perché non sanno dipingere (fare) sono anzi meno moderni degli altri, più vecchi e decadenti dei neofigurativi. Entrambi, allo stesso modo, funerei, per poche anime belle.

Il nostro è un tempo difficile perché si esprime per frammenti, insomma, ma l’Italia non è in croce, come vuole l’omonima opera di Gaetano Pesce scelta per una delle due copertine (l’altra è dedicata all’amato Garzìa). Ché – e qui il nostro si toglie l’ultimo sasso dalla scarpa della post Biennale – i luoghi dell’eccellenza, o dell’esperienza estetica totale, utilizzati per la sua Biennale diffusa sono molteplici, in Italia. L’Hangar Bicocca e il Leoncavallo, portatori coi palazzi di Kiefer e i graffitari di un’idea di monumentalità oggi semiscomparsa. Il museo Ettore Guatelli di Ozzano Taro, il labirinto di Fontanellato (da inaugurarsi nel 2013 in omaggio al bicentenario della morte di Giambattista Bodoni) di Franco Maria Ricci  o la grotta dei culatelli di Spigaroli a Polesine Parmense. E ancora il mosaico di Baj in farsi sul muro di Pontedera e i muri del Librino di Antonio Presti, il parco ungarettiano di Mirella Sagredo a Gradisca d’Isonzo, il borgo di Montegridolfo di Alberta Ferretti e soprattutto il recupero totale di Santo Stefano di Sessanio (Sextantio), vicino l’Aquila, con l’albergo diffuso di Daniele Kihlgren.

Il dialogo conclusivo col decano Gillo Dorfles chiude e impreziosisce il lavoro, rafforzando alcuni aspetti critici del fare arte e critica nella contemporaneità. Insomma, con questo volumetto, peraltro stampato inopinatamente in carta traslucida, Sgarbi mira a togliersi di dosso la nomèa d’incompetente dell’arte contemporanea affibbiatagli da malevoli critici, dando addosso – ma più pacatamente, a bocce ferme – a sacerdoti e vestali di una religione che se morta non è, come volevano Hegel e Argan, certo non gode di buona salute. Verrebbe da aggiungere che, accanto alle due forme di contemporaneità individuate dal critico ve ne sarebbe una terza: l’arte del proprio tempo, che proprio per questo racconta quel che c’è, ne è la sua espressione fatua e materica. Facendo la cronaca, non la storia dell’arte, sta a questa come il giornalismo alla letteratura. Anche se non mancano, va da sé, ottimi giornalisti. Ma tant’è. I temi in ballo meriterebbero ben altro spazio che il succinto libello, o un minimalista mi piace non mi piace su faccialibro, ma l’importanza delle questioni in campo è tale che limitarsi a fare spallucce è il modo migliore per seppellirsi, anima e ossa, dentro la fossa di una contemporaneità che ha fatto il suo tempo. Ecco perché siamo stati tra i pochi a non sputare veleno sulla trascorsa Biennale e non certo per amore del caos messo in piedi all’Arsenale, o vanagloria di compiacere lo Sgarbi furioso. E con ciò un sassetto dalla ciocia ce lo togliamo pure noi.