Crisi dell’arte, appoggiamo Minini

Roma

Prendo seriamente la provocazione del gallerista Massimo Minini, rilanciata dall’editore Giancarlo Politi, (come riportiamo sotto) e aderisco all’iniziativa offrendo 50mila euro in spazi pubblicitari alla “Galleries united” di cui parla, sia che essa venga aperta a Ponte Chiasso, a Londra o a New York. Aderisco perché penso sia venuto il momento di passare all’azione: al punto in cui siamo le parole, gli appelli non servono più. E dunque, se per far capire che il sistema dell’arte italiana è prossimo al collasso serve delocalizzare facciamolo. Perché la sintesi di Minini è triste ma corretta. Perché è meglio vivere che soccombere. Perché forse anche questo governo, così attento alle dinamiche economiche e alle regole della concorrenza, si renderà conto che un intervento risolutivo è necessario e improcrastinabile nell’interesse di tutti. Così come, comprendendo le difficoltà che portano Politi a spostare un pezzo del suo giornale a New York, penso sia inevitabile che chi può vada via. Non è bello, non è giusto ma a questo, nei desolanti fatti, è costretto l’intero comparto. Occorrerebbe privatizzare, facilitare fiscalmente le donazioni e le sponsorizzazioni, eliminare gli sprechi e i disservizi che coprono di ridicolo i nostri siti archeologici e museali. Ovvietà di cui parliamo da una vita, rimaste fin qui lettera morta. È l’ora del fare. Ben venga quindi l’idea di Minini. È un primo gesto che forse potrà aprire a una riflessione più proattiva. La nostra offerta è dunque un modo per raccogliere la sfida di Minini e rilanciarla pigiando sul pedale della concretezza.

Se però poi tutto resterà come prima, cioè fermo. Se galleristi e operatori continueranno ad andare in ordine sparso, ciascuno inseguendo il proprio piccolo tornaconto. Insomma se ancora una volta daremo a vedere che non siamo capaci di fare sistema, di lanciare una legittima quanto vitale protesta. Allora avremo certificato la nostra pochezza e dimostrato che abbiamo quello che ci meritiamo, che anche noi siamo lo specchio del paese. Se non saremo capaci di dare vita a questa piccola e civile forma di contestazione allora avremo avvalorato la diffusa teoria che se la cultura è morta è colpa di tutti. Anche nostra.

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Un sasso nello stagno?

Così si potrebbe definire questo scritto di Massimo Minini, che doveva essere pubblicato in Flash Art ma che io ho preferito inviare subito come Newsletter a tutti i nostri lettori, durante o prima le vacanze, per aprire un possibile dibattito. Questo e i precedenti governi sono riusciti a mettere sul lastrico il sistema dell’arte italiana, sino a due-tre anni fa un fiore all’occhiello del paese e orgoglio della nostra cultura e con un numero di collezionisti piccoli e grandi, giovani e no, da esserci invidiato in tutto il mondo. Collezionisti come assidui e competentissimi frequentatori di tutte le gallerie e fiere d’arte nazionali ma anche frequentatori e clienti delle maggiori gallerie e fiere internazionali: il terrorismo fiscale, anche piuttosto plateale, a cui è sottoposto questo paese, li ha allontanati dall’arte e dalle gallerie italiane (Massimo Minini confessa che ora solo il 20% del suo fatturato è riconducibile all’Italia), per spingerli (almeno i più determinati), ad acquistare all’estero. Una famosa gallerista francese, mi confessava che negli ultimi mesi, i suoi collezionisti italiani sono più che quadruplicati. Dall’altro canto Getulio Alviani, dal suo minuscolo rifugio di Cortina, invece mi dice che la mitica cittadina delle vacanze degli italiani è deserta e stremata: le vetture proseguono per l’Austria oppure decidono di recarsi a Saint Moritz ma nessuno osa trattenersi più a Cortina, dove gli alberghi sono sprangati e i negozianti disperati. Da settembre-ottobre una parte della redazione e ufficio marketing di Flash Art si trasferirà a New York, dove la vita è normale e ancora venata di ottimismo, dove tutti pagano tasse sopportabili e molti comperano arte senza doversi sentire in colpa. La proposta di Massimo Minini è una provocazione? Può essere. Ma se alcune gallerie italiane dovessero trasferirsi a Chiasso o Lugano (come è già avvenuto) non si gridi allo scandalo. Io credo che tra poco ogni italiano avrà il diritto di chiedere lo stato di rifugiato politico.

Giancarlo Politi

Tutti a Ponte Chiasso?

E se dieci gallerie italiane di un certo peso aprissero una filiale a Ponte Chiasso? Be’, sarebbe forse un gesto clamoroso, non vi pare, cari colleghi? Se ci trovassimo in dieci che vanno d’accordo, con idee simili, che non ne possono più dell’Iva al 21 e poi il 23% della SIAE che pretende il 4% quando comperi da un notaio, un altro 4% quando vendi a un avvocato, e farà tra poco 23+8%= 31%!… Voi mi dite, anzi mi insegnate, che così andiamo a sbattere, tra poco. Quando cominceremo a spararci a una tempia, a impiccarci anche noi o a buttarci giù da un balcone? Invece di suicidarci propongo un’azione clamorosa da un lato e necessaria dall’altro. Poi ognuno di noi dieci potrà scegliere se chiudere la galleria in Italia o tenerla. Intanto avremo almeno lanciato una provocazione, posto un problema, evidenziato una situazione insostenibile. Perché i nostri colleghi d’oltralpe ci fottono regolarmente vendendo con Iva al 5,5% i francesi, 7% i tedeschi, 8% gli svizzeri e questi anche senza Siae. Perché gli americani non hanno né Iva né dds e noi stupidi sì? Perché una classe politica di ladri europei ci ha messo nella merda? Da chi hanno preso i soldi? Perché la lobby degli artisti che conta centomila iscritti ha fottuto la lobietta dei galleristi che hanno solo duemila associati nella F.E.A.G.A. (la federazione europea della nostra categoria)? E dove vanno veramente i soldi che diamo alla Siae quando questa non trova il de cuius? Se aprissimo a Ponte Chiasso una sede comune, ci organizzassimo delle mostre, bene inteso, e ci facessimo transitare le nostre vendite, anche quelle verso l’Italia, risparmieremmo, noi e i nostri collezionisti, una montagna di soldi e riusciremmo a contrastare la concorrenza che oggi, con i prezzi che girano, ci supera sempre di un bel 20% circa e scusate se è poco. Niente di personale, anzi sono amici, ma quando Dabbeni a Lugano o Verna e Hauser & Wirth a Zurigo espongono Paolini, Dan Graham o Jason Rhoades, se io fossi un collezionista milanese ci andrei di volata (naturalmente già lo fanno… e fanno bene). Ghada Amer un mese fa a New York mi chiedeva come mai io non vendo le sue opere mentre Cheim & Read ne vendono tante proprio agli italiani! E mi chiedeva come mai noi ci lamentiamo che in Italia il mercato è finito, mentre collezionisti italiani comperano bellamente più di prima e a manetta. Dunque chiamiamo dieci gallerie, non di più, ma tutte assieme per costituire un fatto clamoroso. Già molte gallerie italiane lo hanno fatto individualmente, alla chetichella, anticipando i tempi e vedendo lontano. Sperone in Usa e Svizzera, De Cardenas in Svizzera, Tornabuoni Svizzera e Francia, Continua in Francia e Pechino… Altri hanno scelto Londra (De Carlo, Sprovieri, Corvi Mora, Greengrassi, ma non dimentichiamo John Eskenazi o Pescali…). E Massimo Martino, caro amico, che lo aveva capito vent’anni fa? Chissà cosa pensava di noi, quelli che restano, tanto per fare citazioni. D’altronde con i pezzi e i prezzi che aveva lui dall’Italia non sarebbe mai stato possibile. Insomma, potremmo tenere la casa madre qui e una vetrina fuori, altri potrebbero fare il contrario, dipende dai singoli. Ma un bel gesto collettivo farebbe sicuramente notizia.Sono sempre stato contrario ad abbandonare l’Italia. Andarsene significa mollarla al suo destino, spingerla alla deriva. Però a stare qui faremmo la fine della Costa Concordia: a forza di fare inchini ce lo prenderemo nel sedere. Naturalmente niente da eccepire, la cosa può anche avere una côté piacevole…

Massimo Minini